Aratura dei campi

La lingua siciliana e il lavoro

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La lingua siciliana ha una straordinaria ricchezza lessicale perché si è arricchita dei vocaboli e delle strutture grammaticali derivanti dalle lingue parlate dai diversi popoli che qui hanno abitato nei secoli.

Oggi riflettevo sul fatto che in siciliano esistono tre diverse parole per definire il “lavoro”. Sono tre forme lessicali che indicano in maniera molto precisa tre differenti tipologie di lavoro, ma anche tre differenti concezioni del lavoro stesso.

La prima parola è sirvìzzu, che si pronuncia con la zeta dolce.
Deriva, come evidente, dal latino servus, che significa servo, schiavo, e indica in modo generico la condizione servile di chiunque non sia indipendente né nelle proprie decisioni, e nemmeno nella propria vita.
In siciliano, sirvìzzu – che può essere tradotto in italiano con la parola “servizio” – è il lavoro che viene svolto per conto di altri, e di solito indica un compito assegnato senza che chi lo svolge abbia autonomia decisionale. Viene normalmente utilizzato per indicare il lavoro nel settore terziario: chi lavora in banca, chi ha uno studio professionale, chi si occupa di intermediazione o chi ha trovato un “posto” (di solito un incarico pubblico o un’attività legata all’amministrazione, alla burocrazia) fa un sirvìzzu, o meglio havi un sirvìzzu.

La seconda parola è travàgghiu.
Chiara qui l’origine francese – travail – che può tradursi in italiano con la parola “travaglio”, ma che in siciliano non ha la connotazione negativa che può percepirsi invece nella traduzione italiana, dove questo termine evoca comunque una condizione penosa, difficile, molto faticosa.
Travàgghiu in siciliano indica solitamente un lavoro manuale, molto spesso di tipo artigianale. Fanno un travàgghiu il falegname, l’idraulico, il contadino. Di una persona che si impegna molto ed ha successo nel proprio lavoro si dice che è travagghiatùra, che è uno dei migliori complimenti che possano farti quando ti riconoscono dei meriti di serietà, onestà, precisione.

Infine, l’ultima parola è lavùru –  dal latino labor, in italiano “lavoro” –  che in siciliano si usa quasi eslusivamente all'infinito: lavuràri, che è sinonimo di arare.
Mi sono spesso chiesta perché questa parola, che nelle diverse declinazioni delle lingue neolatine ha mille sfumature e mille significati, in siciliano ne abbia solo uno, e pure così preciso.
Mi sono venuti in aiuto i classici, che utilizzano labor per definire sì la fatica fisica, ma anche la tensione verso il compimento di qualcosa, verso la trasformazione e il cambiamento. In questo senso, labor indica l’impresa, l’opera e, più che solo lo sforzo in sé, il suo risultato (se vuoi approfondire, c’è di che riflettere a questo link).

E dunque ora capisco perché lavuràri indichi solo l'aratura, dunque il lavoro dei campi: perché solo in questa attività si realizza compiutamente la vocazione dell’agricoltore, si sottolinea la sua dignità e si apprezza la sua straordinaria funzione: quella di trasformare la terra da elemento sterile, duro e inerte a fonte inestinguibile di cibo e di vita. Solo nella stretta relazione con la terra il contadino siciliano assume su di sé un orizzonte più vasto, che trascende la fatica del quotidiano e intravede, già ancor prima di piantare, di potare, di ammasare o di spollonare, la soddisfazione del raccolto.

 

aratura a belicello 

Tags: agricoltura, lingua siciliana, lavoro

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