Questo articolo sull’agricoltura, il cambiamento climatico, le scelte di vendemmia eccetera nasce da una chiacchierata con Francesco Falcone, con il quale ho condiviso alcune preoccupazioni e da cui ho ricevuto in regalo parole molto migliori di quelle che avrei saputo scegliere io.
[Nella foto, il vigneto del Microcosmo, aggredito ieri da un incendio doloso che siamo, per fortuna, riusciti a domare appena in tempo]
Eccomi (da qualche giorno) nella mia diciannovesima vendemmia. Dovrei sentirmi sempre più fiduciosa, sicura delle mie scelte, serena nei giudizi - almeno questo era ciò che aspettavo da me stessa quando feci la scelta di dedicarmi interamente all’agricoltura e al vino.
Quando cominci questo lavoro, in mezzo a tanti dubbi e insicurezze, pensi che dopo un certo numero di vendemmie (e di impianti, di potature, di vinificazioni) prima o poi arriverai a conquistare la stessa confidenza che è prerogativa dell’artigiano, del vasaio, dell’ebanista: sapere dove mettere le mani e conoscere la materia al punto di poter quasi lavorare a memoria.
Invece, più passa il tempo e meno questa memoria mi è utile. Più utili mi sembrano l’istinto, la sensibilità, lo spirito di adattamento.
Ma adattarsi a cambiamenti che mai sono progressivi, lineari, è complicato: ne parliamo appena e il loro nome già ci sfugge, poiché manca la storia, manca l'esperienza, tutto è drammaticamente nuovo.
È vero, ci sono le tendenze macroscopiche, le ferite aperte da sempre, che qui a Menfi riguardano l’acuirsi della siccità. Siccità che tuttavia è oggi sempre più prolungata e, paradossalmente, sempre più accompagnata da manifestazioni alluvionali violentissime. L’acqua che sembra ritirarsi, nascondendosi per mesi interminabili, assetandoci, esplode improvvisamente con furia inaudita, trascinando con sé tutti i nostri tentativi di disciplinarla.
D’estate dobbiamo difendere le viti dal disseccamento e dalle bruciature dei grappoli, a cui si somma l’obbrobrio degli incendi, monumenti di follia e stupidità umana; mentre d’inverno dobbiamo salvarle dall’asfissia radicale, in terreni che si allagano di piogge tracimate dai valloni e dagli invasi abbandonati dai figli e dai nipoti dei contadini - ormai da tempo trasferiti in città - e lasciati all’incuria di affittuari, o al pascolo abusivo.
Abbandoniamo le nostre campagne perché di agricoltura si vive a stento, a meno di considerare la terra un semplice mezzo di produzione da spremere fino all’ultima goccia di energia, e ci disinteressiamo del nostro ambiente, in seno al quale, giorno dopo giorno, si vanno formando metastasi sempre meno risolvibili, di cui stiamo pericolosamente sottovalutando la portata.