Ma perché i lieviti indigeni fanno così tanta paura? Se preparata correttamente, una cuve in fermentazione spontanea può dare grandi soddisfazioni.
La mia prima volta con i lieviti indigeni è stata nel 2010 (di tecniche, dubbi e sperimentazioni ho parlato ampiamente qui).
Da allora tra me e loro è stato amore vero, profondo e ricambiato, una storia che, come tutti gli amours fous, spero non finirà mai.
Si dicono tante brutte cose sui lieviti indigeni.
Alcuni, con una punta di snobismo, li chiamano addirittura “selvaggi”, lasciando trasparire una punta di disprezzo per la loro supposta incapacità a svolgere coscienziosamente il lavoro di agenti fermentanti.
Dicono che siano esseri incontrollabili, indisciplinati, che fra di loro si annidino orde di terribili apiculati che, approfittando di ogni minima disattenzione dell’enologo, riverserebbero asperità e scompostezze in un mosto altrimenti delicato ed aromatico. Roba da non riconoscere più uno sciardonné california style da un grüner veltliner in difetto di maturazione…
Per non parlare poi della loro mancanza di concentrazione, della loro innata svogliatezza: c’è chi giura di aver assistito ad epici arresti di fermentazione, che né rimontaggi all’aria né dosi massicce di DAP (Ammonio Fosfato Bibasico, una specie di Red Bull energetica per lieviti in calo di zuccheri) riuscirebbero a far ripartire.
Sarà che io voglio bene ai miei lieviti indigeni, ma a me queste cattiverie non le hanno mai fatte...
Li raccolgo alla mattina presto, quando l’uva è bella turgida.
Per non forzare il loro lento risveglio (sono stati in latenza fino a qualche settimana fa, quindi hanno bisogno di un po' di tempo) bagno il mosto in un fondo di acqua minerale e alcol al 10%: l’alcol scoraggia la proliferazione dei batteri, quelli sì che sono malvagi!
Poi mando in loop gli XX - ché se fanno bene a me, fanno bene anche a loro - e aspetto.
Di solito ci mettono da due a cinque giorni per svegliarsi: con la luna calante un po’ di più, con la luna nuova o crescente molto di meno.
Per i primi giorni fermentano con tutte le bucce, i raspi e qualche tralcio più flessibile, da cui ho eliminato le foglie. Poi i tralci li tolgo, ma raspi e bucce continuano a stare lì fino alla torchiatura manuale, quando il piede verrà travasato nella vasca definitiva.
Ma questa è un’altra storia, magari ve la racconto la prossima volta.
On air: xx - Crystalised
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