Che fine ha fatto il Passito?
- Letto 21700 volteDOC Sicilia: le mie considerazioni a caldo sul disciplinare, i punti critici e le conseguenze sulla designazione dei vini.
Oggi, finalmente, riesco a leggere il testo del nuovo Disciplinare DOC Sicilia: tra eterne discussioni c’hanno messo quasi due anni ad approvarlo, ma se ne parlava da molto, molto più tempo.
Per vari motivi questo disciplinare non mi piace.
La ragione più evidente è che non prevede l’obbligo di imbottigliamento in Regione: la proposta è stata avanzata, ma combattuta e vinta dai grossi produttori di vino sfuso, che hanno temuto di perdere i contratti in essere con grossi imbottigliatori italiani e stranieri (so di uno con sede e stabilimento in Svezia, ci credereste?).
A parte il fatto che qualunque DOC che si rispetti obbliga i produttori a completare la produzione all’interno del territorio tutelato, anche per ragioni di controllo, non mi spiego perché non si sia utilizzato il nuovo disciplinare per indurre quegli stessi imbottigliatori a confezionare lo sfuso in Sicilia, investendo in nuovi impianti o lavorando con quelli esistenti.
Ad essere maliziosi, viene da pensare che l’obiettivo sia stato proprio quello di sfuggire ai controlli.
Ad essere ingenui, invece, fa solo rabbia, perché si è rinunciato ad imprimere una accelerazione economica al settore del vino in Sicilia, lasciando che il valore aggiunto del prodotto continui ad essere regalato al cospicuo numero di speculatori che, ogni giorno, immette sul mercato bottiglie di sedicente vino siciliano a prezzi che neppure coprono i costi di produzione, distribuzione e trasporto.
Per non parlare dell’IRAP che sarebbe rimasta nelle casse regionali, restituendo parte del valore aggiunto a chi il valore aggiunto lo ha prodotto.
Già questo sarebbe abbastanza… ma invece.
Ecco la cosa che mi ha fatto sobbalzare: il nuovo disciplinare non prevede più la tipologia “passito”, che lascia il posto ad una sorprendente “vendemmia tardiva”. Sorprendente, perché il passito non ha nulla a che vedere con i “late harvest wines” del Canada, del Sud Africa o dell’Australia, totalmente differenti per gusto, aroma e personalità. Ancora più sorprendente, perché nessuno al mondo collegherebbe mai il tradizionale, originale, tipico passito siciliano ad un generico “late harvest wine” che si fa in tutto il mondo.
Ci ho pensato e ripensato, poi, finalmente, mi si è accesa una lampadina: l’unica ragione che la maggioranza dei viticultori ha avuto per sottoscrivere questo disciplinare è da ricercarsi nella atavica passione del popolo siciliano per i calci nelle gengive, una forma congenita di masochismo che ha condotto noi, culla della civiltà mediterranea, a diventare una generica regione in ritardo di sviluppo.
E ora come glielo spiego agli americani, ai russi e ai cinesi che Albamarina è diventato un “late harvest”?
Degli ice-wines non ha proprio nulla: solare, pieno, ricco di materia, profuma di albicocca matura e di fichi, e sprigiona tutta la ricchezza e la potenza del sole di Sicilia.
Le uve fermentano due volte: con la prima vendemmia si raccoglie al giunto punto di maturazione, e si fermenta a temperatura controllata fino a secco. Dopo due settimane, le uve che nel frattempo sono state appassite alla pianta vengono aggiunte al primo vino, e rifermentano con le bucce fino a quando si raggiunge un miracoloso equilibrio tra zuccheri, alcol, acidità e salinità.
Un concentrato prezioso di sole e di mare, che non può chiamarsi altro che passito.
Alla faccia del disciplinare.
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