Capita, altroché: un vino che per anni ha avuto un'etichetta DOC, all'improvviso perde la denominazione e diventa più difficile riconoscerlo. Qui spiego perché accade, e come si deve riclassificarlo per poterlo mettere in commercio.
Partiamo dall’inizio: le DOC – Denominazioni di Origine Controllata – sono marchi collettivi di tutela dei vini prodotti in aree delimitate del territorio italiano. Ciascuna DOC è disciplinata da uno specifico regolamento ministeriale che ha le seguenti caratteristiche minime:
• Delimita il territorio di provenienza delle uve utilizzate per la produzione,
• Prescrive i limiti produttivi: rese per ettaro, rese uva-vino, etc.
• Individua le pratiche enologiche applicabili (elaborazione, affinamento, confezionamento, etc),
• Indica le caratteristiche tecniche ed organolettiche dei vini ai quali le aziende intendono attribuire la DOC prescelta.
>>> per un maggiore approfondimento sulle DOC Italiane, puoi leggere questo articolo.
Per poter utilizzare effettivamente la DOC prescelta, ciascuna azienda deve sottoporsi a tutta una serie di controlli, sia amministrativi che tecnici, che vengono svolti dagli organismi di controllo del relativo Consorzio di Tutela.
Semplificando al massimo – sennò finisco a scrivere un trattato di legislazione vinicola – i controlli principali riguardano:
1) In vigna: area di produzione, vitigni impiantati, caratteristiche degli impianti, rese;
2) In cantina: tecniche di vinificazione ed affinamento minimo (quando previsto), analisi chimico-fisiche, degustazioni organolettiche.
Dopo aver prodotto il vino secondo le regole del disciplinare, l'azienda dovrà sottoporre ciascuna partita di vino ad un prelievo effettuato dal Consorzio. Il vino prelevato verrà prima analizzato da un laboratorio autorizzato per verificare la corrispondenza dei dati analitici a quelli previsti dal disciplinare (alcol, estratto secco, zuccheri residui, acidità, solforosa, etc.). Verificata la corrispondenza analitica, il vino verrà poi degustato da un’apposita commissione di degustazione incaricata di verificare la “tipicità” del vino stesso, ossia la sua identificabilità con i caratteri del territorio di origine.
Solo se il vino passa tutti i controlli potrà adottare la DOC richiesta. Ma ci possono essere degli intoppi.
CASO 1: il vino non supera i controlli analitici.
In questo caso, l’azienda può fare alcune cose per riportare i dati analitici all’interno dei parametri stabiliti dal disciplinare:
- Fare un taglio con un’altra massa: alcuni disciplinari, ad esempio, prevedono la possibilità di fare un taglio del 15% con vini da vitigni diversi;
- Utilizzare le tecnologie di cantina autorizzate.
Dopo le lavorazioni l’azienda potrà sottoporre nuovamente la partita ai controlli e, se il vino li supera, potrà utilizzare la DOC.
CASO 2: il vino supera i controlli analitici ma non supera i controlli organolettici.
Anche in questo caso l’azienda può fare alcune cose:
- Il solito taglio di cui sopra;
- Le pratiche di cantina autorizzate: ad esempio, una filtrazione spesso è sufficiente a risolvere il "problema” di un vino che viene giudicato rivedibile perché presenta delle velature;
- Incrociare le dita e sperare che la commissione successiva abbia meno da ridire (che è quello che solitamente faccio io).
L’azienda potrà sottoporre nuovamente il vino alla degustazione una seconda volta. Se in seconda commissione passa, no problem. Altrimenti, il vino viene bocciato e non potrà utilizzare la DOC.
Che cosa può fare allora il produttore?
Ci sarebbe la possibilità di appello ad un’apposita commissione nazionale, ma a meno che tu non sia un produttore di Barolo che vende il vino a centinaia di euro di solito preferisci percorrere altre strade.
Una strada è quella di declassare il vino a IGT: ovviamente se nel territorio esiste una IGT e se il vino rientra nei parametri del relativo disciplinare. Dal momento che nell’IGT non sono previste le degustazioni obbligatorie per l’utilizzo della denominazione, molte aziende proprio evitano di fare vini DOC.
La seconda strada è quella di rinunciare a qualunque denominazione (e quindi anche alla possibilità di scrivere in etichetta in nome del vitigno) e di declassare il vino a VINO (che corrisponde alla vecchia denominazione VINO DA TAVOLA che oggi, in Europa, non può più essere utilizzata).
Che poi è quello che ho fatto io con Microcosmo [Perricone] 2015.
La 2015 per il Perricone è stata un'annata molto buona, calda ma non follemente calda come la 2017.
La gradazione alcolica è nella norma, l’estrazione del colore è, invece, molto maggiore del solito perché il caldo - si sa - favorisce la cessione degli antociani ed anche del tannino.
L'acidità è ottima, a compensare una maggiore pienezza in bocca.
E' un vino che avrà una longevità probabilmente superiore al solito, e una grandissima piacevolezza fin da adesso.
Però, c’è sempre un però, alla commissione di degustazione non è piaciuto.
Per la verità non gli piace mai: da quando faccio il Perricone me l’hanno messo sempre rivedibile in prima degustazione, solo che le altre volte è sempre passato in seconda, e questa volta no.
E allora? Dopo il primo prevedibile momento di sconcerto – e la valutazione se declassarlo a IGT – ho deciso che Microcosmo 2015 sarà, semplicemente “VINO ROSSO”. E quindi gli ho fatto un'etichetta nuova nuova che sarà la base, in futuro, per il restyling di altre mie etichette.
Per me non ha alcun senso identificare i miei vini se non con il loro terroir, e quindi con MENFI.
Quando penso ai miei vini, durante la vendemmia, quando infilo le braccia nel mosto che fermenta, sempre e orgogliosamente dirò MENFI. Se qualcuno sostiene che non lo posso fare, pazienza. Ma dire che Microcosmo è un VINO ROSSO ha molto, ma molto più senso che dire che è un generico “Terre Siciliane”, almeno per me.
E, forse, da questa esperienza ho capito una cosa: che il Perricone è testardo, ma io lo sono di più.
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