L'arte del perpetuo
Altrimenti, vino perpetuo da uve Inzolia, è probabilmente l'unico "vino di casa" che sia ancora prodotto e imbottigliato a Menfi.
Fino a qualche decennio fa, a Menfi il vino perpetuo si faceva solo con l'Inzolia, che è l'uva più rappresentativa del territorio e, molto probabilmente, anche l’uva che da più tempo viene coltivata sui nostri litorali.
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Inzolia, la regina del Mediterraneo
L’Inzolia, infatti, è stata introdotta nella Sicilia occidentale dai coloni greci che, nel 650 a.C., fondarono Selinunte. Città di straordinaria bellezza, adorna di templi monumentali e di magnifici santuari, Selinunte diventò ben presto uno dei centri più ricchi e potenti della Magna Grecia grazie al proprio dinamismo commerciale e ad una floridissima agricoltura. La Chora selinuntina, ossia il vasto territorio agricolo che circondava la città, era disseminata di fattorie e piccoli insediamenti che si dipanavano dalla costa fino all’entroterra, e riusciva a sfamare agevolmente una popolazione di oltre 100.000 abitanti.
Che nella Chora selinuntina si producesse ottimo vino è testimoniato dai numerosi ritrovamenti archeologici (di anfore, coppe, crateri, oinochoai ed altre suppellettili dedicate alla mescita ed al simposio), e da un bellissimo palmento rupestre di epoca ellenistica che domina le Cave di Misilbesi – quelle, per capirci, da cui veniva estratta la pietra per le metope dei templi.
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Breve storia del vino in Sicilia
Dicevo, appunto, dell’Inzolia: dai suoi grappoli colore dell’oro si ricava, normalmente, un vino di gradazione alcolica modesta (intorno ai 12 gradi), che solo con un lungo e lento invecchiamento riesce ad esprimere le proprie straordinarie qualità. Con il tempo, la progressiva e costante evaporazione dell’acqua di cui il vino è in prevalenza composto conduce, infatti, ad una impressionante concentrazione non solo degli aromi, ma anche delle altre componenti del vino (gli acidi, in particolare). Il tempo, e solo il tempo, favorisce una ossidazione elegante ed integrata, la formazione di alcoli superiori (il glicerolo in particolare) ed una naturale stabilità tecnologica che non ha bisogno di essere supportata da particolari lavorazioni (ad esempio filtrazioni o chiarifiche), né da “correzioni” enologiche.
Tutto questo i nostri antenati l’avevano capito parecchio tempo fa.
Certamente non avrebbero saputo spiegare le reazioni chimiche e i processi microbiologici alla base delle loro scelte produttive, ma conoscevano le piante e discernevano le vigne buone da quelle ordinarie; l’osservazione, l’analisi dell’esperienza, l’attesa erano parte del loro corredo culturale, del loro tradizionale sapere.
E questo sapere a Menfi diventava, nelle case dove si faceva vino, il “vino di casa”. Così veniva chiamato il vino migliore, semplicemente, ed ogni casa aveva il proprio: erano vini tutti diversi, che evolvevano in maniera differente da casa a casa mantenendo però, nel tempo, una straordinaria riconoscibilità e coerenza.
Al “vino di casa” erano destinate le migliori botti, di dimensione generosa anche se non grandi quanto quelle di Marsala - quelle di mio nonno erano da quattro carretti, più o meno intorno a 20 quintali di uva. Al loro interno era conservata “la madre” di Inzolia, allevata in perpetuum e curata con grande attenzione perché da essa dipendeva la qualità e il carattere del vino che era il sigillo della casa: costituita dai sedimenti (le fecce fini diremmo oggi) di tante vendemmie, la madre era il cuore del vino stesso.
Da queste botti si spillava il vino delle occasioni, che erano tante: c’erano i compleanni e i battesimi, le nozze e gli anniversari, le schiticchiate di caccia e di vendemmia, il Santo patrono, le Pasque le Pasquette e i Carnevali, ed altro ancora. Bastavano per l’anno, ma non venivano mai svuotate oltre la metà, per non disturbare il lavoro della madre: a Natale si ricolmavano col vino nuovo, senza mai smuovere il fondo.
Il vino nuovo era l’Inzolia, sempre lei: al massimo si aggiungeva ogni tanto del Grecanico o del Catarratto, se si voleva un colore più intenso, o un po’ più di struttura. E questo vino, il “vino di casa”, era quello che oggi chiameremmo terroir.
Poi ad un certo punto questi vini di casa abbiamo smesso di farli: abbiamo iniziato ad inseguire modelli produttivi di importazione, a piegarci a ciò che credevamo fossero “le richieste del mercato”, e ne abbiamo quasi perso la memoria.
Io ho voluto riprovarci, pensando a mio nonno e a mio padre dopo di lui. Ho iniziato una botte nel 2012, da cui ho prodotto due annate di Altrimenti, vino di casa, nel 2018 e nel 2021. Finora piccolissime quantità, poco meno di 300 bottiglie.
Il prossimo imbottigliamento, forse, fra qualche anno.
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