
Ma il vino si fa davvero in fabbrica?
Nella trasmissione “La fabbrica del vino” andata in onda su Rai 3 domenica scorsa, si è parlato di molte cose che riguardano il mondo del vino.
Si è parlato (ancora!) del Brunello di Montalcino taroccato, di Consorzi e Denominazioni che non tutelano la qualità dei vini, di boschi distrutti per far posto a vigne spruzzate in modo massiccio e senza alcun criterio con pesticidi che rendono impossibile a chiunque di vivere nelle vicinanze, di 60 diverse sostanze chimiche che possono essere aggiunte all’uva durante la “fabbricazione” del vino e di obbrobriose manipolazioni che lo rendono, quindi, un prodotto industriale.
Tralascio i dettagli, la trasmissione (se non l’avete vista) la potete guardare ancora per 7 giorni su Rai Replay cliccando qui, poi, presumibilmente, si perderà nei meandri degli archivi Rai.
Da produttrice di vino mi sento chiamata in causa, soprattutto perché so, facendo parte della categoria, che l'interpretazione del mondo del vino offerta dalla trasmissione è molto, molto parziale. E non perché io non sopporti che nessuno tocchi il mio giardinetto, ma perché un’informazione che sia tale dovrebbe essere completa e, al netto delle semplificazioni necessarie per parlare di aspetti tecnici a persone che non sono addette ai lavori, dovrebbe quantomeno offrire una rappresentazione esauriente dei temi di cui vuole trattare.
Dunque, una trasmissione parziale. E questa colpevole parzialità si riassume tutta in quella affermazione iniziale di Iacona, che è poi il titolo stesso della trasmissione: “il vino si fabbrica”.
Ma il vino italiano non è solo questo, niente affatto.
Per esempio, senza tacere sulla pericolosità dei pesticidi e sui residui che possono ritrovarsi nei vini prodotti con uve pesantemente trattate, nessuno ha sottolineato che in Italia nel 2014 erano oltre 44.000 gli ettari di superficie vitata biologica a cui si aggiungono 23.700 ettari di superficie “in conversione”, per un totale che supera i 67.900 ettari, ossia oltre il 10% della superficie vitata complessiva. In Sicilia, la superficie di vigneti già certificati bio raggiunge i 25.000 ettari, il 25% del totale, a cui si devono aggiungere i vigneti in conversione, ossia quelli che saranno riconosciuti biologici dopo tre anni dalla richiesta di certificazione. Ed è un dato in crescita costante.
Il servizio poi continua testualmente così: “a parte eventuali residui di pesticidi, cosa c’è ancora nel vino?” Ovviamente gli additivi, che modificano le caratteristiche organolettiche dei vini in base alle diverse “ricette” aziendali (parole del tecnico di cantina intervistato) o per ottenere una maggiore “gradevolezza”.
Ma è davvero così? Tutto il vino si “fabbrica” così?
No, ovviamente no. Come ci sono moltissimi viticoltori che coltivano secondo il metodo biologico, limitando o escludendo del tutto i pesticidi dai propri vigneti, così ci sono moltissime aziende che producono il proprio vino utilizzando un solo additivo (i solfiti) in dosi molto basse, o addirittura senza utilizzare nessuno dei 60 additivi di cui parla la trasmissione. Ma di queste nella trasmissione non si è parlato, perché? E perché non si sono messe in evidenza, anzi sono state del tutto taciute, le differenze oggettive tra il lavoro dei vignaioli e quello dell’industria del vino?
Perché il problema, come spesso accade, è quali produttori di vino sono stati intervistati, e quali no.
Chi viene invitato oggi in televisione a parlare del vino italiano? Il tecnico che non spiega che l’acido citrico non è un additivo enologico ma serve per lavare la pompa o la vasca in acciaio dopo che è stata disincrostata con la soda? Oppure il proprietario della grande azienda da milioni di bottiglie che riceve il giornalista nel salotto buono e di certo non fa i travasi in cantina, e che non dice che i lieviti selezionati non sono affatto “prodotti chimici”?
Come è stata data a Pacina la possibilità di spiegare perché è uscita dal consorzio del Chianti Classico, così non è stata data ad alcun vignaiolo la possibilità di dire che il suo vino non è fatto con 60 additivi. E questo, credo, sia stato il limite maggiore della trasmissione, che ha parlato dei problemi dell’industria del vino lasciando intendere che tutto, o almeno la maggior parte del vino italiano, sia industria, e di quella cattiva.
Il vino dei vignaioli non è un prodotto industriale, ma un prodotto agricolo, e le cantine dei vignaioli non sono fabbriche, ma laboratori artigiani dove l'uva viene lavorata con attenzione e rispetto.
Il vino dei vignaioli non si fabbrica, si fa.